La “chiamata” a mettersi a servizio della Parola

Il diacono don Silvio Filosa verrà ordinato presbitero il prossimo 28 settembre. In questa intervista racconta la sua vocazione a mettersi “a servizio della Parola”.

Don Silvio, qual è stato il momento in cui hai capito che Dio ti stava chiamando al sacerdozio?

I segni di questa chiamata al sacerdozio ministeriale li ho letti da sempre nella mia storia. Eppure, posso di certo affermare che in alcuni periodi ho provato ad azzittire questa voce aspirando a cose diverse. Tuttavia, se dovessi fotografare un’istantanea di questa consapevolezza potrei darvi testimonianza di un intenso momento di preghiera vissuto nel santuario della Madonna della Civita dove ha risuonato in me questa parola del Signore: “Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi” (Gv 15,16).

Quali persone o esperienze hanno maggiormente influenzato e sostenuto il tuo percorso?

Pensando alle persone significative è doveroso per me menzionare il parroco che mi ha cresciuto don Antonio De Meo, un autentico modello di vita sacerdotale. Vi sono poi altre persone che hanno confermato la bellezza di questa vocazione, tra cui don Franco Proietto, padre spirituale del Seminario a cui rivolgo il mio affetto. Le esperienze anche sono ricche e varie, ma due in maniera particolare: l’Azione Cattolica e il cammino dei dieci comandamenti vissuto con don Fabio Rosini a Roma.

In che modo senti di essere chiamato, come sacerdote, a servire la Chiesa?

Innanzitutto, nel mettermi al servizio della Parola! Siamo chiamati a lasciarci trasportare dal Vangelo del Signore, tanto da essere posseduti dall’annuncio del Risorto che non può rimanere chiuso in noi stessi. Al servizio dell’unità, raccogliendo le diverse voci e presentarle in modo unanime al Signore, mantenendo le differenze. E, infine, essere sacramento di presenza del Signore, chiamato a essere segno efficace della sua grazia, affinché attraverso di me si realizzi il suo desiderio di poter essere ancora presente in mezzo al suo popolo per salvarlo.

Quali pensi siano le sfide principali di un sacerdote, in un’epoca segnata da secolarizzazione e cambiamenti valoriali?

La sfida è quella dell’incarnazione. Incarnare, non significa essere bravi teoreti capaci di fare mappe millimetriche e fotografie di alta qualità della realtà che ci è intorno. Oggi è fondamentale assumere la carne delle “gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi” (GS 1) come ha fatto Cristo: non ha ragionato su come fosse ridotta la nostra umanità, ma piuttosto l’ha vissuta e, nel viverla, ci ha mostrato la via della salvezza.

C’è un messaggio che vorresti lasciare alla comunità diocesana, soprattutto ai giovani che si interrogano sulla loro vocazione?

“Non abbiate paura”, come diceva San Giovanni Paolo II. Oggi noi giovani siamo impauriti da quei mostri interiori che spesso ci abitano e che non sappiamo come gestire. Abbiamo paura di mostrarci così come siamo, pensando di essere vulnerabili in una società che ammantandosi di un finto rispetto finisce per maciullare nelle sue spire la serietà dei problemi profondi dell’animo umano. Cristo conosce le profondità del nostro cuore. Niente di più direi ai giovani se non di lasciarsi amare da Cristo, perché non toglie nulla ma allarga la vita fino alla pienezza vera.

Davide Leone