Carissimi, permettete anzitutto che io esprima tutta la gioia di vederci in tanti riuniti in questa basilica che custodisce la tomba dell’apostolo Paolo, l’apostolo che fin dall’inizio spinge la Chiesa a obbedire al comandamento del Signore Gesù di andare e portare il suo Vangelo senza farsi spaventare e fermare da nessuna frontiera. È anche per questo motivo che la basilica di san Paolo è un luogo dove naturalmente si pratica e si celebra il dialogo. La caratteristica di essere fuori le mura non riguarda solo un oggettivo fatto geografico, ma è anche evocativo di una spinta a stare fuori dalle numerose “mura” che ci costruiamo e costruiamo.
Oggi, poi, celebriamo anche un’altra basilica, quella di san Giovanni in Laterano, la Cattedrale di Roma, di cui ricordiamo la dedicazione, perché cattedrale di Roma e, in qualche modo, del mondo.
Stamattina abbiamo incontrato il Vescovo di Roma, papa Leone, nell’altra basilica giubilare, quella di san Pietro in Vaticano. Molti poi hanno già attraversato o attraverseranno la porta santa della Basilica di Santa Maria Maggiore.
Condensiamo così in questa giornata così solenne il nostro Giubileo, oggi fisicamente e idealmente percorriamo tutte le tappe del pellegrinaggio della speranza, iniziato il 28 dicembre dell’anno scorso. Benché si sia indicato il giorno della chiusura dell’Anno Santo, comprendiamo bene che essere pellegrini di speranza è una caratteristica del cristiano che non si conclude, come non si conclude nessuna delle grazie legate al Giubileo: la grazia del pentimento, della misericordia, della vita spirituale che riprende vigore.
Le letture che si leggono in questa solennità della dedicazione fanno riflettere su che cosa sia la speranza.
Sant’Agostino diceva che la speranza ha due figli, lo sdegno e il coraggio.
Lo sdegno è la reazione di chi si rende conto di quello che è minaccioso per l’uomo, del male che gli impedisce di vivere. L’immagine dello sdegno è sicuramente quella che il Vangelo (Gv 2,13-22) ci racconta quando dice di Gesù che scaccia i mercanti dal tempio perché hanno fatto del luogo dell’incontro con Dio un mercato. Lo sdegno è proprio la capacità di cogliere la follia di modi di fare, di pensare. È la reazione di fronte al fatto che alcuni pensano che i loro interessi siano l’unica cosa che conta per cui agiscono senza freni e senza limiti. Non rendersi conto del mondo in cui viviamo non è un aiuto alla speranza, come non aiuta a guarire la negazione del male. Anche nella lettura di Ezechiele (47,1-2.8-9.12) c’è questa consapevolezza di un mare dove niente può vivere, simbolo potente del male.
Lo sdegno, però non basta a sostenere la speranza. C’è bisogno anche del coraggio, quello simboleggiato nella profezia di Ezechiele dal fiume che sgorga dal tempio, potremmo dire dalla comunità cristiana, dalla Chiesa. Un fiume di acqua che ha il coraggio di gettarsi nel mare e di risanarne le acque. Dice il profeta che dove il fiume arriverà, tutto rivivrà. Gli alberi che sono segno di questa vita sono nei Salmi, i giusti che danno frutti abbondanti e che non appassiscono mai. Il coraggio di essere giusti è più della denuncia dell’ingiustizia, è impegno a risanare, è fiorire, fare frutto.
Questo coraggio è, dice Agostino, il secondo figlio della speranza.
Anche Gesù, nel vangelo, non si limita a fare pulizia del tempio, a denunciarne il fraintendimento, ma ha il coraggio di correggere l’idea che quelle persone avevano del tempio, insegnando che il vero tempio è la casa dove Dio sta e che è in Lui che Dio abita e che quella presenza è indistruttibile, nemmeno la morte la può distruggere. Il coraggio di indicare a quelli che lo ascoltavano la soluzione. Se l’indignazione ha come risultato il tempio vuoto, il coraggio apre al pensiero che Dio è presente in tutti come vita, anche nella morte. Sappiamo come queste parole gli saranno rinfacciate al momento del processo e si trasformeranno in condanna, ma sappiamo anche che quel coraggio che immediatamente apre alla croce, poi diventa resurrezione. Non c’è parola più amica della speranza che la parola “resurrezione”. Torniamo con questa parola nel cuore: l’indignazione per la morte e il coraggio di annunciare la resurrezione.

